Il mio primo viaggio in treno, da un racconto di Lino Battan
Treni a Vapore, una vera passione
A causa della mia salute cagionevole e su prescrizione del medico mia madre mi aveva accompagnato a Padova per un approfondito esame delle vie respiratorie.
E quella, la ricordo ancora come una giornata piena di grandi avventure: la prima volta che salivo su un treno, la prima volta che andavo a Padova e soprattutto la prima volta che verificavo la distanza (15 Km) dalla città a casa nostra, a causa del rientro a piedi per mancanza di mezzi pubblici.
Di buon mattino, seduto sulla bici di papà che camminava a fianco alla mamma, raggiunsi la stazione ferroviaria di Battaglia Terme.
Il treno non mi era una cosa nuova, più volte con la nonna, quando andava a far visita ai cugini Businaro che abitavano all’altezza della galleria dei Colli Euganei, avevo assistito al transito di convogli, a volte di lunghezza inaudita con decine e decine di vagoni.
Era stata sempre un’emozione veder spuntare dal tunnel la motrice a vapore, col suo pennacchio di fumo, che stantuffando rumorosamente correva veloce.
L’attenzione veniva catturata immediatamente dal movimento delle enormi bielle che spinte dagli stantuffi trasmettevano il movimento alle ruote motrici e dalla barra che le congiungeva fra loro che, trasferendo l’enorme potenza del vapore dei cilindri ad altissima pressione sulle ruote stesse, garantiva la corsa del convoglio.
Ricordo nelle allora frequenti giornate di nebbia della cattiva stagione, gli scoppi ripetuti dei petardi piazzati sulle rotaie, che stritolati dalle ruote della locomotiva, col loro tonante scoppio avvisavano il capotreno dell’avvicinarsi alla stazione.
Il mostro gigantesco correndo verso il paese lanciava un sibilo acuto per avvisare del suo arrivo, continuando sempre col suo rumoroso rotolamento e battito metallico delle ruote d’acciaio sulle giunzioni delle rotaie sottostanti.
Era uno spettacolo che non riusciva mai ad esaurire la mia curiosità ed aspettavo sempre con ansia che la nonna andasse in visita ai cugini per seguirla fin laggiù per godere dell’emozionante spettacolo della tecnologia ferroviaria.
Tornando a noi, alla stazione di Battaglia Terme, superata la sorpresa per l’altezza dei locali della stazione, il mobilio massiccio dell’ufficio del capostazione, la biglietteria dove ottenere lo scontrino di viaggio, ecco il fischio del treno in arrivo e dalla panchina vedo venire verso di noi la motrice a vapore seguita dalla sua coda di vagoni.
Avvicinandosi diventa sempre più grande, è gigantesca, alta come una casa, imponente quasi come la stalla dei Salvan; a vedere i treni in transito non avrei mai immaginato fossero cosi mastodontici.
Infatti al momento di prendere posto sul vagone, erano tutti carri bestiame con tre scalini di ferro in verticale ed il pianale più alto della mia testa, gli uomini aiutavano le donne a salire a bordo ed io fui sollevato da mio padre ed appoggiato sul pianale mentre mia madre mi prendeva la mano.
L’interno era uno stanzone rettangolare molto più lungo che largo, le pareti erano in assi di legno, con un paio di piccole finestrelle in alto e il pavimento, anch’esso in assi di legno, era ricoperto con uno strato di paglia pulita.
Al segnale acuto del fischietto del capostazione per la partenza, il grande portone da cui eravamo entrati fu fatto scorrere fino a completa chiusura e fermato dall’esterno con un gancio di sicurezza.
La dentro l’esperienza non era certo esaltante, l’assordante stantuffare della motrice il rotolamento sulle rotaie il battere delle ruote sulle giunture dei binari, gli scossoni laterali, l’odore di carbone e il fumo che entrava da tutte le fessure creavano una qualche preoccupazione.
Ed ecco l’impatto con l’ingresso in galleria, un tremendo boato, buio assoluto, i rumori amplificati almeno dieci volte più assordanti che mai, io tutto stretto a mia madre mi sentivo soffocare dal fumo che entrava da tutte le parti e riempiva le narici, la bocca e gli occhi di pulviscolo maleodorante di carbone.
Anche se gli oltre mille metri di galleria non erano molti a me sembravano interminabili considerata la scarsa velocità il buio e le condizioni insopportabili di quel treno.
All’uscita sembrava che anche il treno avesse emesso un sospiro di sollievo, in pochi minuti iniziò il ricambio d’aria e anche la nostra accettazione di quella strana normalità.
Inorgoglivo già al pensiero che la forza e l’irruenza indomabile della nostra motrice fosse riuscita a sfondare la montagna per riapparire splendida ancora sicura e travolgente sulla pianura sottostante annunciando col suo canto ritmato “tchuff… tchuff… tchuff… … …” la supremazia della sua corsa inarrestabile.
Dalle fessure sulle pareti potevo intravvedere la campagna che correva via da noi ma… ma strano, in lontananza sembrava che il mondo corresse in circolo ritornando indietro per mettersi ancora una volta davanti al treno; e più strabuzzavo gli occhi e più il mondo girava all’indietro.
Dopo le piccole ma belle stazioni di Montegrotto e di Abano fui scosso dallo sferragliare del treno sul ponte di ferro del Bacchiglione, come disse mia madre.
Caspita che grande non avrei mai immaginato un fiume cosi largo, e subito al di la ecco il famoso il campo di aviazione di Padova con alcuni aeroplani parcheggiati tutti inclinati con la coda per terra.
Prima di arrivare in stazione a Padova ecco il campo di Marte, una vasta estensione con serie di binari affiancati sulle cui rotaie stazionavano innumerevoli vagoni e locomotive, grandi e piccole, certe in buono stato, altre sconce e arrugginite ed altre ancora a pezzi o ridotte a rottami contorti dai bombardamenti aerei, sembrava un campo di distruzione infinito, il vero cimitero dei treni.
La stazione di Padova mi colpiva per la sua estensione sia in lunghezza panchine di centinaia di metri, sia per la larghezza in quando si potevano contare più di una decina di binari affiancati sui quali stazionavano altri treni pronti per altre destinazioni o parcheggiati in attesa di espletare i loro predefiniti programmi di esercizio.
Purtroppo alla sorpresa del “grande” si mescolava la sorpresa del “brutto” delle parti di struttura diroccate e delle macerie, ancora presenti e molto evidenti, dovute ai bombardamenti di fine guerra.
Padova: Verso le dieci del mattino iniziò il nostro peregrinare per la città, prima agli uffici della Previdenza, poi all’Azienda Sanitaria, poi al Presidio Sant’Antonio, ancora alla Previdenza Sociale quindi al Sanatorio e alla fine al Dispensario.
Avremo attraversato almeno tre volte la città a piedi, per ottenere alla fine una radiografia al Dispensario, dove eravamo rimasti in attesa per quasi due ore.
Finalmente a pomeriggio inoltrato fummo liberi e sulla via del ritorno, in prossimità della Prato della Valle, mia madre mi sorprese per farmi assaggiare il pane bianco.
Forse mi aspettavo troppo dalla primizia, era cosi pallido, in bocca sotto i denti, mi sembrava un po’ piatto, insipido, non era cosi rustico come piaceva a me, ma aveva almeno il pregio di saziare.
“Mamma è buono”… e già provavo tristezza per la bugia di convenienza.
L’incontro con mio padre in via Roma fu alquanto triste, era tardi e ci disse che non c’erano più mezzi per ritornare a casa.
Dopo una breve sosta su una panchina del Prato della Valle ci incamminammo lentamente verso il Bassanello, papà sperava si potesse incontrare un qualche mezzo di fortuna per facilitare il nostro rientro a casa ma non fu cosi.
Ero tanto piccolo e leggero che le gambe andavano avanti da sole, ogni tanto ci si sedeva sull’argine del canale per riposare un istante e poi si riprendeva a camminare nella notte.
Dopo una giornata interminabile stavamo affrontando una tale notte di fatica da restare per sempre impressa nella memoria, ma in quella notte il mio cuore scopri la grandezza di mio padre e la determinazione del suo sostegno soccorritore.
Nonostante una gamba menomata, per una poliomielite sofferta da bambino, mi prese più volte sulle spalle per alleviare alla mia fatica, parlando nel contempo con la mamma per far trascorrere il tempo più facilmente.
Grazie papà, come il buon San Cristoforo, mi hai traghettato sicuro attraverso le minacciose acque della vita.
Grazie pure all’ingegner Stephenson per la Locomotiva a Vapore.
Da bambino anche lo scrivere il suo nome sulla carta mi evocava nella fantasia l’immaginario rumore onomatopeico del treno: “steph-en-son, steph-en-son, steph-en-son…”